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INTRODUZIONE
Sebbene ai suoi albori la crioterapia fosse stata utilizzata principalmente per trattare le lesioni splancniche nei vari campi della medicina e della chirurgia, questa fu presto in grado di attrarre l'interesse anche dei medici ortopedici. Dalla fine degli anni '60, la criochirurgia iniziò a essere considerata come una potenziale nuova frontiera per il trattamento delle lesioni che interessassero non solo i tessuti molli, ma anche le ossa. Il primo utilizzo della criochirurgia in campo ortopedico è da attribuire a Marcove e Miller (1969), con un sistema che prevedeva il versamento di Azoto Liquido direttamente in una cavità circoscritta in una neoplasia ossea. Gli autori descrissero il caso di un uomo di 48 anni affetto da carcinoma polmonare con metastasi all'omero prossimale. La lesione causava un dolore forte e continuo che riduceva significativamente la qualità di vita del paziente. Nonostante i molteplici tentativi, la radioterapia non sortì alcun effetto, portando i medici ad intraprendere questo innovativo approccio chirurgico. L'intervento fu un successo, in quanto il paziente ottenne una pressoché completa risoluzione della sintomatologia algica [1]. Questo risultato incoraggiò Marcove a proseguire ed approfondire il ricorso a questo nuovo approccio terapeutico. Nel corso degli anni, diversi agenti criogenici si sono dimostrati in grado di garantire un buon controllo locale del tumore a fronte di lesioni accettabili nei confronti dei tessuti sani e della funzionalità globale del sito trattato. Pertanto, l'uso della criochirurgia è stato presto esteso a un'ampia varietà di tumori ossei. Con il tempo, la criochirurgia ha dimostrato di avere un potenziale curativo nei confronti di vari tumori ossei benigni localmente aggressivi e maligni di basso grado. Sembra inoltre essere in grado di giocare un ruolo positivo nel controllo locale del tumore e nel fornire sollievo dai sintomi indotti nelle lesioni ossee metastatiche [2-4]. Il crescente interesse per la crioterapia nel trattamento di tumori e lesioni ossee ha portato a una comprensione progressivamente migliore dei suoi meccanismi e degli effetti sul tessuto osseo.

EFFETTI DELLA CRIOTERAPIA SUL TESSUTO OSSEO: CORTICALE vs SPUGNOSO
I meccanismi di danno (riportati in dettaglio nel capitolo 3 A) colpiscono l'osso esattamente come gli altri tessuti. La crioterapia, somministrata mediante molteplici cicli di congelamento e scongelamento, induce danni cellulari sia in modo diretto che indiretto. L'efficacia del trattamento e le sue dinamiche d'azione possono variare sensibilmente a seconda che il tessuto trattato sia osso corticale e midollare. Questi due tessuti hanno infatti caratteristiche istologiche e organizzazioni strutturali completamente diverse e reagiscono pertanto in modo diverso alle sollecitazioni termiche.
Osso Corticale
L'osso corticale è un tessuto compatto ed altamente calcificato, con una quota estremamente bassa di acqua extraarticolare, una bassa cellularità ed una trama vascolare relativamente scarsa. Complessivamente, queste caratteristiche rappresentano un limite per la diffusione delle basse temperature e riducono al minimo l'efficienza della crioterapia in termini di danno cellulare. L'osso corticale è quindi da considerarsi relativamente resistente alla crioterapia. Questa resistenza non rappresenta un limite assoluto alla criochirurgia, ma va comunque tenuta in considerazione quando si approcciano lesioni ossee, soprattutto per quelle che coinvolgono le ossa lunghe. I medici dovrebbero altresì essere consapevoli che, al netto di questa resistenza, l'osso corticale non è completamente invulnerabile alle basse temperature. Cicli ripetuti di congelamento e disgelo possono infatti ledere la composizione della componente non calcifica della matrice extracellulare dell'osso, portando a una riduzione della forza e dell'elasticità ossea nel breve-medio periodo. Un altro aspetto che dovrebbe essere preso in considerazione quando ci si avvicina all'osso corticale è se il tessuto bersaglio è ancora sano o se è già stato coinvolto dal tumore. Un osso corticale continuo e sano può rappresentare una barriera anatomica alla diffusione del congelamento, con buone possibilità di vedere preservata, almeno in parte, la propria vitalità. Un osso corticale affetto da malattia, invece, perde inevitabilmente parte delle sue caratteristiche e potrebbe di conseguenza essere più soggetto ai meccanismi di danno tipici della crioterapia. Al netto di tutto ciò, l'osso corticale deve essere gestito con attenzione e, quando possibile, protetto durante le procedure criochirurgiche. Anche per questo motivo l'evoluzione dei dispositivi crioterapici è stata orientata alla produzione di criosonde con dimensioni quanto più contenute, al fine di minimizzare un eventuale danno involontario a carico delle corticali [5-8].
Osso spugnoso
Rispetto a quello corticale, l'osso spugnoso è meno compatto e mineralizzato. Per sua natura ha una buona cellularità nelle sue trabecole ossee, separate le une dalle altre da vasti spazi lacunari vascolarizzati. La combinazione di cellularità significativa e buona vascolarizzazione si traduce in buoni livelli di acqua sia intracellulare che extracellulare all'interno del tessuto. Queste caratteristiche sono essenziali quando si esegue la criochirurgia. Infatti, a differenza dell'osso corticale, l'osso midollare è un tessuto crio-sensibile che subisce gli effetti dannosi sia della fase di congelamento che di quella di scongelamento. Gli studi hanno riportato che la necrosi ossea si verifica a temperature inferiori a -21 °C. La formazione di cristalli di ghiaccio intracellulare e la rottura della membrana sono considerati i principali meccanismi del danno cellulare. Altri meccanismi di citotossicità includono alterazioni elettrolitiche, denaturazione delle proteine ??cellulari e disfunzione del microcircolo. Complessivamente, l'osso midollare rappresenta un bersaglio adatto per la crioterapia, essendo soggetto a molte delle sue potenziali vie di danno. Le lesioni intramidollari rappresentano quindi un campo fertile per la somministrazione di trattamenti criochirurgici, grazie alle buone possibilità di successo [5-8].

ASPETTO ISTOLOGICO E RESISTENZA OSSEA DOPO IL TRATTAMENTO
Gli effetti della criochirurgia possono essere valutati anche da un punto di vista istologico. Subito dopo la somministrazione della crioterapia, i campioni istologici possono non presentare variazioni significative rispetto a quelli preoperatori. Pertanto, l'assenza di alterazioni massicce entro poche ore o addirittura giorni dal trattamento non è da considerarsi come un fallimento del trattamento, quanto piuttosto una condizione temporanea e naturale in cui il danno criomediato non si è ancora reso visibile morfologicamente. Di norma, entro due mesi dalla crioterapia, all'interno della lesione è possibile individuare una zona necrotica ossea distinta e segni di riassorbimento [6-8]. Nella periferia dell'area trattata, si può individuare un aumento del rimodellamento osseo, con i tessuti ossei limitrofi che appaiono oggetto di un orletto edematoso. Studiando la tecnica del getto diretto, Malawer e colleghi [9] hanno documentato una necrosi estesa da 7 mm a 12 mm e che tale necrosi alterava e ritardava la riossificazione locale. Nei loro primi studi, Marcove e colleghi [2] hanno riportato che 3 cicli di congelamento-scongelamento portavano a morte delle cellule tumorali fino a 2 cm dalla superficie di trattamento. Detriti ossei possono essere trovati anche a distanza di quattro o sei mesi dall'intervento, insieme a segni istologici di rimodellamento osseo inframezzati ad osso lamellare maturo. Popken e collaboratori hanno dimostrato che il processo di guarigione è leggermente più rapido nel femore rispetto alla tibia [11, 12]. Lo stesso studio ha evidenziato una riduzione della resistenza alla compressione dell'osso nei due mesi successivi alla criochirurgia. Nel 1978 anche Fisher e colleghi hanno dimostrato su un modello murino che la criochirurgia porta a una riduzione transitoria della resistenza meccanica ossea nelle prime 8 settimane dal trattamento. Gli studi che testimoniano una ridotta resistenza ossea nelle settimane e nei mesi successivi al trattamento locale sono corroborati dal riscontro istologico di necrosi ossea non reattiva, che può spiegare la ridotta tolleranza al carico. Tuttavia, con il passare del tempo, la differenza tra l'osso trattato e quello controlaterale diminuisce progressivamente: a distanza di quattro mesi dalla criochirurgia il femore trattato mostra generalmente quasi la stessa resistenza del controlaterale preso come controllo [8]. Nel valutare questi dati, si deve essere consapevoli che una resistenza meccanica indebolita è un evento trasversale a tutti i trattamenti che portano a una devitalizzazione cellulare mediante alterazione della temperatura . Kohler et al hanno dimostrato che gli innesti ossei trattati in autoclave avevano una significativa riduzione della loro forza torsionale, perdendo fino ad un terzo della loro precedente resistenza [13]. Diversi autori hanno riportato effetti comparabili per i tessuti ossei anche dopo terapia radiante, con segni di riduzione della resistenza meccanica sia alla torsione che alla flessione fino al 50% [14-16].

ASPETTO MRI DOPO LA CRIOTERAPIA
Anche se la radiografia rimane l'esame più frequentemente utilizzato per le valutazioni di routine dopo la criochirurgia nei tumori ossei benigni, la risonanza magnetica fornisce una migliore comprensione della morfologia tridimensionale del tessuto osseo e delle caratteristiche dei tessuti. La risonanza magnetica è uno strumento di imaging importante per il follow-up di tumori sia benigni che maligni di basso grado trattati con crioterapia. Diversi studi hanno riportato, alla periferia della zona target, la presenza di un segnale alto in T2 e un segnale basso in T1. Questi reperti suggeriscono la presenza di un esteso edema del midollo osseo, che può anche superare i 2 cm di larghezza e si suppone sia ascrivibile ad una sottostante osteonecrosi termica. In un prossimo futuro, la risonanza magnetica post-operatoria a seguito di interventi criochirurgici potrebbe risultare utile anche e soprattutto per la diagnosi precoce di residui tumorali o recidive all'interno di regioni di necrosi [17-19].

CONSEGUENZE CLINICHE
Se esposto a temperature estremamente basse, l'osso corticale e midollare perde dunque parte della propria resistenza meccanica e riduce la sua elasticità. Inoltre la zona di osteonecrosi va incontro a un lento fenomeno di creeping substitution . Questo si traduce in un maggior rischio di frattura, anche dopo traumi a bassa energia. Sebbene questo effetto si sia dimostrato reversibile entro pochi mesi, l'osso coinvolto deve essere dunque sempre protetto (osteosintesi di supporto) e il carico evitato o ridotto nelle settimane successive alla criochirurgia. Altre complicanze saranno discusse in dettaglio nel capitolo dedicato.

BIBLIOGRAFIA
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